Pelagio Visentin al Gregorianum

Ciclo di conferenze con Pelagio Visentin

1967-68

Tra il 1967 e il 1968, il Collegio Gregorianum ha avuto l’onore di ospitare Pelagio Visentin, in un ciclo di conferenze dedicato alla teologia ed in particolare alla figura di Gesù.

Pelagio Visentin, nato in Istria nel 1917, monaco benedettino dell’abbazia di Praglia, liturgista, è stato un personaggio ben noto nel mondo culturale italiano. Ispiratore e protagonista fin dagli inizi del rinnovamento liturgico avviato dal Concilio Vaticano II è stato costantemente presente come maestro sicuro e illuminato in ogni passo concreto di quella riforma che ha partorito la nuova fisionomia della Chiesa. Ha partecipato, infatti, alla stesura post-conciliare del Salterio, della Liturgia delle Ore, del Messale Romano e ha collaborato in diverse vesti alla redazione di quasi tutti i libri ufficiali della Chiesa Romana.

E’ stato inoltre a lungo insegnante e poi preside dell’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina a Padova. Con i laici entrò in contatto già nel dopoguerra, dapprima nell’ambito padovano, tra gli studenti della Fuci, quindi come animatore dei corsi di cultura religiosa per i giovani laureati del Meic e con gli ambienti universitari tramite il gruppo degli “Assistenti di Casa Pio X” negli anni ’50 e ’60. La sua fama si allargò anche a livello nazionale con la partecipazione alle “Settimane di Camaldoli” e con l’Azione Cattolica Centrale sotto la presidenza di Vittorio Bachelet. E’ scomparso nel 1997.

Come incipit della prima conferenza, Visentin sottolinea l’importanza di ricercare il fondamento della fede, inteso come il presupposto fondamentale dell’indagine teologica, la cui importanza andrebbe riconosciuta da tutti i cristiani e non solo dal ristretto gruppo degli specialisti.

Visentin, richiamandosi all’introduzione all’Epistola agli ebrei citata nell’art. 4 della “Dei Verum”, individua questo fondamento nel contenuto della Rivelazione, la quale ha come punto focale Gesù Cristo, Verbo incarnato e mandato come uomo in mezzo agli uomini per portare a compimento l’opera di salvezza. Ovviamente, la fede è qualcosa che non possiamo dimostrare. Ciononostante, essa, come tutte le credenze, deve pur risolversi e appoggiarsi a qualche evidenza. Nel caso della fede cristiana, questa evidenza risiede nei misteri divini, di cui Gesù è venuto a parlarci, come testimoniato dai Vangeli. Possiamo distinguere una fisionomia intellettuale e una morale in Gesù: per quanto riguarda la prima, dai Vangeli si evince l’immagine di Gesù come il più saggio e sapiente tra gli uomini, “Maestro dell’umanità”, fino alla dichiarazione di essere una cosa sola con il Padre. La seconda, invece, consiste nella assoluta coerenza con cui egli traduce in pratica ciò che va predicando: egli, infatti, non conosce il peccato e non ne è toccato minimamente.

Gesù conosce perfettamente il “guazzabuglio del cuore umano”, non sbaglia mai, sa come smascherare l’ipocrisia, come nel caso dei Farisei e sa come unire la profondità dell’intellettuale alla semplicità del popolano. In lui l’amore verso il Padre nei Cieli ispira l’amore più sincero e vitale, quello per l’uomo, specialmente per il peccatore. Ricordiamo, tuttavia, che Gesù afferma di essere Figlio di Dio e che “tutto quello che ci appare della sua intelligenza e della sua santità non porta il carattere dell’umano”. Ma non è forse un illuso o un menzognero colui che avanza tali pretese? Possiamo rispondere a questo legittimo interrogativo, rivolgendoci alla testimonianza degli apostoli e scoprendo che di Gesù essi vedevano tutto ciò che egli faceva con loro fino agli atti più intimi della vita quotidiana (mangiare, dormire, ecc…). E, inoltre, come è possibile considerare un impostore colui in nome del quale, decine di anni dopo, schiere di uomini si sono sacrificati?

Passando alla seconda conferenza, Visentin va ad approfondire il significato teologico della vita di Gesù come Rivelazione. Se consideriamo i Vangeli, infatti, e guardiamo all’operato di Gesù, possiamo evincere che la definizione più profonda della natura di Dio è data dalla formula: “Deus charitas est”. Un attributo quello della dell’amore caritatevole che emerge anche nell’atteggiamento con cui Gesù stesso si rivolge al Padre, per mezzo dell’appellativo “abba”, traducibile dall’aramaico con “papà” e per questo decisamente desueto nella letteratura del tempo. Il fatto che Gesù utilizzi questo termine così come viene pronunciato dalla bocca di un bambino, evidenza l’intimità del rapporto col Padre, in quanto Gesù è colui che viene a rivelare il mistero dell’amore e della paternità di Dio.

Ricordiamo, inoltre, che Gesù è il grande “radunatore” delle masse dei reietti e dei sommersi della società come ciechi, lebbrosi, storpi e prostitute, verso cui egli dona totalmente il suo amore, fino all’estremo della Crocifissione. Infine, solo con la Resurrezione si rivela il termine ultimo dell’umanità: il disegno salvifico della salvezza dell’anima e del corpo e perno di tutta la storia, che viene compiuto e celebrato nella Pasqua.

Ma cosa possiamo fare noi in persona perché costantemente ci sia questo incontro con il Signore? Visentin indica quattro tappe perché si dia la “rivelazione definitiva”: innanzitutto, l’incontro personale con Dio attraverso Gesù nel Vangelo per poi passare alla completa consegna di consegna di sé alla Parola. Questo atteggiamento deve ancorarsi sulla coerenza verso la chiamata di Dio, cosicché essa modelli la nostra vita e, ovviamente, dato che l’uomo vive necessariamente in una comunità, il cammino non sarebbe completo senza la Chiesa come comunità dei fratelli, la cui funzione consiste nel “rendere attuale, concreta quella parola che è scritta in un libro del passato”.

Qui è disponibile la trascrizione originale del ciclo di conferenze di Visentin.