È passato così tanto tempo, che si potrebbe cominciare come nelle favole “c’era una volta”… .
In realtà, molti anni addietro frequentavo il liceo classico della mia città e la mia mamma conosceva una famiglia il cui rampollo era iscritto all’Università di Padova (per la laurea in Geologia) ed era ospitato in un collegio.
Quando venne la mia ora fu più che naturale avere il massimo delle notizie su di esso. Così durante l’estate (dopo la maturità, che allora si svolgeva per l’intero mese di luglio), facemmo un viaggio a Padova e mentre io andavo a conosce- re meglio le facoltà (ma mio papà anche…), gli altri raggiunsero il collegio che si sperava fosse la mia futura residenza. L’edificio si presentava bene e già la piccola portineria all’ingresso fece loro una buona impressione. Li accolse poi un giovane prete, il responsabile, che spiegò loro quanto era necessario per fugare ogni dubbio sulla difesa e sul mantenimento dell’educazione ricevuta. Il giovane prete si chiamava (anzi era comunemente chiamato) don Ivo (il cognome lo imparai dopo) e nel pomeriggio tornammo tutti per gli accordi conclusivi. Non c’era esame di ammissione e tutto dipendeva dal suo giudizio. (Ricordo di passaggio, che un giorno mi pose ridendo l’interrogativo di chi si sarebbe laureato per primo tra noi, vista l’iscrizione alla medesima facoltà, lui da più tempo, ma praticamente impossibilitato a frequentare, ed a studiare, visti i costanti impegni. Giunse anche la sua laurea ma anni dopo nel 1971).
Vi erano camere singole (poche), a due e tre letti, due sale da pranzo comunicanti (cioè la mensa), le cucine, tenute da brave e simpatiche suore (che poi lo seguirono al Gregorianum e la cui sede locale dell’Ordine era a poche decine di metri dal collegio), uno “sportello” all’ingresso che proteggeva la ridotta portineria ospitante una famigliola che si era impegnata nel compito, i servizi comuni al piano terra e al primo (e unico) piano. L’edificio era strettamente connesso alla chiesa della Sacra Famiglia, sia strutturalmente, sia idealmente (infatti il direttore teorico era il parroco pro tempore), e sul lato opposto della strada, la via Aosta, si ergeva una villetta a due piani con quattro appartamenti, che ospitavano altri studenti accolti nel collegio (e credo di sicura fiducia, vista la massima libertà di cui godevano). A don Ivo dava una mano un altro prete, purtroppo devo dire ora insignificante, o quasi, per noi che ci sentivamo legati a don Ivo e sostanzialmente solo a lui.
Terminata la visita e conclusi gli accordi, tornammo tutti a casa e informammo della spedizione dei conoscenti che pure avevano un figlio che doveva iscriversi e frequentare la facoltà di Ingegneria a Padova. Così anch’essi scelsero quella soluzione e a novembre fummo in due conterranei, matricole, ad occupare una stanza a due letti (lo studente dalla cui famiglia partirono le scelte nostre era andato nel frattempo altrove), ove per un anno, appena il tempo e lo studio lo concedevano, facevamo lunghe e “maschie” lotte e per le quali l’amico non riusciva, diceva, ad avere il sopravvento, anche quando, robusto e pesante com’era, credeva di avermi immobilizzato, perché, affermava, ero come un’anguilla e gli sgusciavo sempre dalle mani e dal resto.
In quell’ambiente mi trovai benissimo, “sia per la forma, sia per il contenuto” (cibo, libertà, amicizie…) anche quando, sulla fiducia, passai nella villetta di fronte (la allora tanto desiderata “villa azzurra”). Don Ivo si mostrava un ottimo educatore, sia socialmente, sia cristianamente (con la messa settimanale nella cappella connessa, seppur autonoma, ma ben raggiungibile sia dal collegio, sia dalla chiesa) sempre disponibile al dialogo e pronto al richiamo (con il famoso “Lei”, al posto dell’abituale “Tu”) quando necessario, per quanto molto impegnato e ricercato anche allora, ma meno frequentemente in viaggio per Roma, come avverrà dopo. Non avendo tra l’altro la patente (il vescovo Bortignon non ammetteva sacerdoti motorizzati e la bicicletta era il mezzo comune di spostamento), quando ne aveva bisogno si serviva come autista di uno studente di medicina altoatesino, ospite anch’egli del collegio (ed ora purtroppo non più tra noi), che, appassionatissimo di motori, andava spesso a Maranello ad assistere alle prove delle Ferrari ed era una sicurezza nella guida, instancabile ed essenziale per i viaggi di lunga percorrenza.
Non esisteva, come invece al Gregorianum, l’obbligo di sostenere tutti gli esami previsti per l’anno, ma come al Gregorianum esami e comportamento morale e sociale erano fondamentali per restare ed i regolari colloqui valutativi con don Ivo erano insindacabili per la permanenza.
Intanto, se ne sapeva poco in collegio, si stava realizzando il progetto del vescovo e di don Ivo, dell’erezione, a Padova, di una istituzione culturale universitaria di indirizzo cattolico, che doveva corrispondere alla “Normale” di Pisa e che sarebbe probabilmente stato realizzato, se non fosse quasi coinciso con lo scoppio del famigerato ’68. Nell’autunno del 1963 tuttavia l’esperimento ebbe inizio e don Ivo fu così nominato assistente ecclesiastico (direttore fu nominato Carlo Gregolin) del nuovo collegio e delle sue attività, cui si accedeva solo per concorso, e diversi studenti dello Studium furono invitati a parteciparvi (così anch’io): alcuni entrarono, altri no (ricordo un mio conoscente da tempo e da poco ospite dello Studium, che non venne ammesso, perché gli mancava un esame per la stretta regolarità del percorso accademico, esame mancante perché, matricola, non aveva subito compreso come si studiava).
Cambiai così ambiente, ma non persone, perché don Ivo e le suore si stabilirono stabilmente nel nuovo istituto e la frequentazione del vescovo (come poi anche quella di monsignor Franceschi, suo successore) fu stabilmente regolare, per la stima profonda che aveva verso don Ivo e la altrettanto profonda convinzione che la cultura era essenziale nella formazione della persona. Per questo il collegio era stato intitolato al vescovo Gregorio Barbarigo, santificato nel 1960, fondatore tra l’altro della modernissima tipografia del seminario, ancora attiva e simbolo della importanza della formazione culturale per un cristiano.
Accennavo poco sopra alle suore: il loro legame con don Ivo era assai forte ed il loro impegno nel far bene era indiscutibile e prezioso. Credo che nessuno si sia mai lamentato del loro agire e dei risultati della fatica cui si sottoponevano giornalmente. Quando se ne andarono dal Gregorianum (diversi anni dopo, per l’età e quindi ritirate dal loro Ordine) fu un acerbo dolore per tutti, per don Ivo per primo.
Non so ora come si presenti ed agisca lo “Studium”, so che era don Ivo la sua anima: chi l’ha frequentato allora, non lo dimenticherà facilmente!
Gianfranco Granello
Direttore del collegio dal 1977 al 2005