Patrizio veneziano di grande sensibilità intellettuale e spirituale, educato nel solco di una tradizione, insieme familiare e civile, di alta e severa moralità, coniugata con una religiosità a forte connotazione interiore, di tonalità contemplativa, si trovò ad optare per la vita clericale dietro l’impulso di un effettivo meditato convincimento personale, nonché sotto lo stimolo decisivo venutogli dall’appoggio del card. Fabio Chigi, papa Alessandro VII dal 1655, anno in cui Gregorio, ricevuta l’ordinazione sacerdotale e conseguita nel contempo la laurea in utroque iure, poté iniziare una carriera ecclesiastica particolarmente rapida, grazie alla protezione accordatagli dal pontefice: già nel ’57 è nominato vescovo di Bergamo, nel ’60 cardinale, nel ’64 è trasferito nella più ricca e prestigiosa sede di Padova, che resse fino alla morte nel 1697.
Singolare apparve ai contemporanei questa figura di prelato più attento allo “spirituale” che al “temporale”, preoccupato di mettere in primo piano le ragioni del “buon governo” della Chiesa, anziché quelle degli affari e interessi privati, interamente dedito alla sua diocesi, alla cura delle anime, ai compiti pastorali, all’opera di rigenerazione morale-disciplinare e di formazione religioso-culturale del clero secolare, nonché impegnato, sostenendo aspri scontri e logoranti contenziosi giurisdizionali su più fronti, a riaffermare la pienezza dell’autorità episcopale sulla Chiesa locale. Tratti, questi, che fin dagli anni bergamaschi facevano parlare di lui come di un altro san Carlo Borromeo, il che significava identificarlo col modello per eccellenza del “buon vescovo” tridentino, modello, peraltro, allora alquanto appannato nella realtà episcopale italiana, nonché ben poco propagandato dal vertice romano-papale.
Sicuramente Gregorio Barbarigo ha un posto di primo piano nel quadro degli episcopati italiani del secondo Seicento, rispetto ai quali, vuoi per la concezione non meramente giuridica ma teologica dell’episcopato, vuoi per l’intensa e intelligente opera in concreto attuata, risalta come il più consapevole e precoce interprete di quelle istanze riformatrici che si affermarono nell’ultimo quarto del secolo, a partire dal pontificato di Innocenzo XI, e diedero poi il tono alla Chiesa del primo Settecento.
Se il suo progetto pastorale procede all’insegna di un rigoroso ritorno allo spirito e al disatteso dettato del concilio di Trento, si sviluppa nel contempo sulla base di nuove esigenze ideali e culturali, che certo sono anche specchio della raffinata e solida formazione propriamente intellettuale che lo contraddistinse. Sappiamo infatti che fu un uomo dai vasti e molteplici interessi, ricettivo nei confronti dei moderni progressi scientifici e culturali, recepiti in positivo e apprezzati, specie nel campo fisico-matematico, coltivato con passione in gioventù, e in quello storico-erudito, seguito con avvertita consapevolezza nel corso della sua vita di vescovo, l’uno e l’altro concorrenti a fargli valorizzare i metodi e i risultati degli studi positivi applicati all’ambito delle discipline teologiche.
E’ per l’appunto il versante culturale a far risaltare i tratti eminentemente propri e qualitativamente più significativi del disegno pastorale di questo vescovo che, attribuendo centrale rilievo all’istruzione, sia del clero che del popolo, promosse una serie differenziata di notevoli iniziative ed opere al riguardo, alcune delle quali particolarmente qualificate. L’impresa culturalmente più prestigiosa è legata al seminario diocesano, istituzione ri-fondata dal Barbarigo e totalmente rinnovata sotto il profilo degli insegnamenti e dei piani didattici, pensata sì quale luogo per la formazione del clero, precipuamente in vista del servizio pastorale, ma insieme concepita come laboratorio di studi superiori, il cui potenziamento fu completo a partire dal decennio ’80, quando fu anche creata la tipografia del seminario -divenuta un centro editoriale di tutto rilievo- e fu pure impiantato un osservatorio astronomico da far invidia all’Ateneo padovano.
Guardando all’insieme delle sue realizzazioni in tale campo – ivi compreso il collegio per i nobili eretto al Tresto nei pressi di Este- e considerando il complesso degli interventi e degli strumenti attivati in diocesi per elevare il livello d’istruzione di ecclesiastici e laici, si scorgono le linee di un ambizioso progetto religioso-culturale, via via cresciuto e perfezionato, progetto che colloca il Barbarigo su una frontiera avanzata: la frontiera di chi persegue la convinzione che si dovesse fornire -ai preti anzitutto, ma anche ai fedeli- una nuova attrezzatura intellettuale, in grado di dare un più solido fondamento razionale alla fede e al vivere cristiano, e un fondamento che si armonizzasse con le moderne acquisizioni del sapere. Giunse addirittura, nella fase finale della vita, a programmare per la popolazione della città di Padova un corso triennale di “Filosofia cristiana” da tenersi nella cattedrale nei giorni domenicali e festivi, corso effettivamente svolto nel 1696-97, ma poi rimasto interrotto a seguito della morte sopraggiunta il 18 giugno del ’97.
Un disegno “illuminato” può essere definito quello del vescovo Barbarigo, tale comunque da far misurare tutta la distanza che intercorre fra la prima stagione controriformistica a ridosso del concilio di Trento e questa stagione del secondo Seicento, pur tutta protesa a recuperare e ad applicare il Tridentino, ma insieme pervasa da uno spirito nuovo e segnata da un progetto riformatore che si apre a prospettive diverse, ormai in direzione del superamento stesso della Controriforma.
Liliana Billanovich
Docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà di Scienze Politiche